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Venezia. In occasione di Biennale Arte la fondazione Giancarlo Ligabue la sera apre le porte di Palazzo Erizzo per la mostra “Futuroremoto”, viaggio nell’oscurità e nel mistero delle grotte preistoriche con 10 opere di Domingo Milella. Visite guidate su prenotazione obbligatoria

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Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue, con l’artista Domingo Milella (foto fondazione ligabue)

Nel buio delle origini risiede il mistero del futuro. Dal 18 al 27 aprile 2024, nella settimana di apertura della Biennale Arte di Venezia, la Fondazione Giancarlo Ligabue la sera apre le porte di Palazzo Erizzo per scoprire la nascita di una nuova era nell’arte e nell’esplorazione visitando la mostra Futuroremoto: un viaggio nell’oscurità e nel mistero delle grotte preistoriche; lo sguardo di Domingo Milella sulle origini ancestrali dell’umanità. La mostra Futuroremoto è come se ci conducesse in una Caverna, davanti a 10 opere dell’artista Domingo Milella (Bari, 1981) esposte quasi tutte per la prima volta, sospesi nel tempo e nello spazio, avvolti nel buio. Immagini che giungono da un passato tanto remoto e profondo da sembrare futuro. Le sue opere trascendono i confini del tempo e della tecnologia: dalle panche ottiche analogiche alle meraviglie digitali, l’esplorazione di Milella del passato illumina l’essenza della nostra esperienza umana condivisa.

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Allestimento a Palazzo Erizzo, sede della fondazione Giancarlo Ligabue, della mostra “Futuroremoto” di Domingo Milella (foto fondazione ligabue)

L’allestimento e l’apertura dopo il tramonto della mostra Futuroremoto (visite gratuite su prenotazione obbligatoria alle 19.30 alle 21, al link https://bit.ly/FGL_FuturoRemoto), nelle sale del Palazzo veneziano sul Canal Grande riportate a nudo dai lavori che la Fondazione ha avviato, in vista della fruizione pubblica della sede e della nascita di quello che viene già chiamato “Palazzo delle Arti”, vuole evocare il buio, elemento essenziale della ricerca di Milella. L’artista portando un grande banco ottico analogico nelle grotte preistoriche, pone la fotografia stessa, il nostro esser contemporanei, davanti alla storia dell’arcaico, del remoto, del profondo. Le fotografie di Milella non si propongono come strumenti o documenti archeologici o scientifici, ma piuttosto come “calchi di luce dal buio”: sculture ottiche di luoghi immersi nel recondito e nell’incomprensibile. In un’epoca dominata dalla tecnologia digitale e dalle ambizioni della computazione e del calcolo massimo che chiamiamo intelligenza artificiale, Milella sembra svolgere uno scavo inverso, nello spazio e nel tempo, cercando nell’interno e nel perduto il “Cuore del Tempo”. La mostra Futuroremoto offre anche un accompagnamento sonoro sperimentale appositamente registrato dal vivo, “Disvelamento”, con sonorità ataviche rivisitate in chiave moderna grazie all’accoppiata Italo Biglioli e i suoni dei corni d’osso e Neu Nau che li rielabora utilizzando un sintetizzatore, per un’esperienza dell’eco e dell’ignoto dal fondo del tempo trasportati nella contemporaneità.

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L’artista Domingo Milella durante uno scatto in grotta (foto fondazione ligabue)

“La ricerca delle immagini preistoriche nelle caverne”, spiega l’artista, “è in realtà un pretesto per realizzare immagini organiche del Mondo e della sua Memoria ancestrale e per questo buia, ignota, celeste e astrale. Le immagini che ne traggo sono in realtà astrazioni delle Preistoria, opere di ricerca sull’origine e su ciò che noi oggi chiamiamo Arte”. Per l’artista barese le fotografie non sono prove o risposte, ma domande su un passato tanto remoto da esser collegato al Futuro, dato che di entrambe le dimensioni sappiamo pochissimo. “I nostri antenati hanno cercato di evocare e difendere l’anima, il sogno, dipingendo nelle parti più profonde e recondite di alcune caverne immagini e visioni inafferrabili. La storia del demarcare nel mondo ci dice molto sulla nostra posizione nel cosmo, oggi come 40.000 anni fa, e nell’avvenire”. “Lo studio della Preistoria”, spiega Inti Ligabue, presidente della Fondazione che ha festeggiato nel 2023 i cinquant’anni di impegno Ligabue nella cultura, “ci pone di fronte ai sentimenti, alle pulsioni, agli istinti più naturali dell’Uomo; ci riporta alla primitiva ricerca del divino, all’originario pensiero di morte, allo stupore di fronte al cosmo; mostra la scoperta del segno come atto creativo ed epifanico. Con questa mostra che apriamo alla città nella nostra sede, anticipando i prossimi impegni, affrontiamo un tema caro e lungamente indagato dalla Fondazione con uno strumento diverso: l’arte, l’emozione, i sensi”.

Archeologia in lutto. È morto a Roma a 77 anni il professor Frederick Mario Fales (università di Udine), archeologo e assiriologo di fama internazionale: appassionato studioso del Vicino Oriente antico, in particolare dell’impero assiro, si è occupato a lungo dell’Aquileia di epoca romana avviando, nel 2002, gli scavi nel sito delle Grandi Terme. Il ricordo dell’ateneo friulano e di chi l’ha conosciuto

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Il prof. Frederick Mario Faled, assiriologo dell’università di Udine, è morto all’età di 77 anni (foto uniud)

Archeologia in lutto. È morto a Roma a 77 anni il professor Frederick Mario Fales, archeologo e assiriologo di fama internazionale. L’università di Udine ne piange la scomparsa. Frederick Mario Fales è stato ordinario di Storia del Vicino oriente antico del Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dal 1994 al 2016. Appassionato studioso del Vicino Oriente antico, in particolare dell’impero assiro, si è occupato a lungo dell’Aquileia di epoca romana avviando, nel 2002, gli scavi nel sito delle Grandi Terme, che ha diretto a lungo. “Il professor Fales lascia una grande vuoto umano e scientifico nella nostra comunità accademica”, sottolinea il rettore dell’università di Udine, Roberto Pinton. “Alla commozione e al cordoglio dell’Ateneo per la scomparsa di un docente dotato di grande empatia si unisce il grande dispiacere e la tristezza per il venire meno di un grande studioso dell’antichità, lontana e vicina, come la nostra Aquileia alla quale ha dedicato intensi anni di studio dando un contributo fondamentale alla scoperta del tesoro inesplorato delle Grandi Terme. Ci consola il fatto che è stato tra i fondatori di una importante scuola archeologica di livello internazionale proprio all’Ateneo friulano che unito nel cordoglio esprime la più sentite condoglianze a tutti i suoi cari”.

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Il professor Frederick Mario Fales (foto uniud)

Nato a Baltimora (Stati Uniti) nel 1946, dopo la laurea con Mario Liverani e Sabatino Moscati all’università di Roma “La Sapienza”, Frederick Mario Fales si è specializzato all’università di Heidelberg. Prima di Udine ha insegnato nelle università di Venezia, Padova e Verona. Ha partecipato e co-diretto numerose missioni archeologiche in Italia e all’estero, soprattutto in Iraq, Siria, Tunisia e Turchia. Era uno specialista nella traduzione dei testi cuneiformi assiri e aramaici. Ha partecipato al comitato editoriale di due progetti internazionali, con base a Berlino ed Helsinki, su testi neoassiri, ai quali ha anche ha contribuito con tre monografie.

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Copertina del libro “Siria. Guida all’archeologia e ai monumenti” (Marsilio)

Lo ricordo ancora quel giorno del 1997. Io ero da poco più di un anno nella sede centrale del Gazzettino a Mestre. E seguivo per le pagine della Cultura le attività di ricerca delle università del Triveneto e di istituti come il centro studi di Giancarlo Ligabue. Quindi avevo incrociato anche Mario Fales. Quel giorno mi capitò in redazione con un volumetto fresco di stampa di Marsilio “Siria. Guida all’archeologia e ai monumenti” scritta con il contributo dei suoi allievi dell’università di Padova. Gli aveva già scritto anche la dedica. Schietto, sanguigno, di un’empatia immediata e coinvolgente. E in quel libro “tascabile” c’era tutta l’essenza della sua professione di studioso: l’amore per il Vicino Oriente, per la didattica e la docenza, per il rigore della divulgazione scientifica.

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Mario Fales e Inti Ligabue all’inaugurazione della mostra “Prima dell’alfabeto” (foto fondazione ligabue)

Vent’anni dopo, nel 2017, è ancora lui al centro dell’attenzione. Fales, all’epoca ordinario all’università di Udine, cura la grande mostra “Prima dell’alfabeto”, tenutasi a Palazzo Loredan a Venezia da gennaio ad aprile 2017. Oltre 15mila i visitatori dell’iniziativa dedicata alla storia della scrittura e della sigillatura praticate nell’antica Mesopotamia. È coautore del catalogo “Segni prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura”, in edizioni italiana e inglese (Firenze 2017). Il Vicino Oriente è ancora al centro della sua attenzione, ma nel frattempo il mondo è cambiato, conseguenza delle “primavere arabe”. Fales è amareggiato. Scrive: “Oggi [2017, ndr) il Vicino Oriente si è allontanato in maniera impressionante (…). Solamente in Tv mi ormai dato rivedere i cartelli stradali dei luoghi sull’alto Tigri come sull’alto Eufrate dove ho diretto scavi, dove ho preso abitazioni e macchinari in affitto, dove ho discusso giorno per giorno con la gente. Mosul, Jerablus, Kobane… il ricordo evoca luoghi di vivace e gaio mercato, di visite cordiali nelle case, di interminabili trattative, un tè dopo l’altro, per ottenere operai per l’attività archeologica. (…) Oggi cerco invano in Tv i volti di chi conoscevo tra i profughi che scappano in gruppi a piedi (…). Il Vicino Oriente sembra ormai essersi trasformato in un pianeta remoto, insensato, insondabile. (…) E noi? Banditi dai luoghi di scavo, oggi mete di predatori avidi di lucro, siamo tornati a osservare la Mesopotamia antica dalla sola visuale delle nostre biblioteche, pur se arricchiti nell’opera di interpretarne la storia e la cultura dalle tante impressioni del territorio – vegetazione, vie e distanze, climi – che quei decenni “sul campo” ci lasciarono negli occhi”. Ma non perde la voglia di favorire la conoscenza di quei popoli e quelle civiltà, e, grazie all’informatica e a un eccellente lavoro di squadra, sottolinea: “Pur se oggi siamo fisicamente lontani dalla Mesopotamia, la Terra tra i Due Fiumi riesce a rivivere nelle pagine del catalogo della mostra” resa preziosa dall’unicità, la varietà e la bellezza della collezione di antichità della Fondazione Giancarlo Ligabue”.

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Aquileia, Grandi terme, 2022: il team di scavo dell’università di Udine che continua il lavoro iniziato da Mario Fales (foto uniud)

Non solo Vicino Oriente. Ma anche la vicina Aquileia. Lo ricorda la Fondazione Aquileia: “Esprimiamo il sentito cordoglio del CdA, del presidente, del direttore e del personale della Fondazione per la scomparsa del prof. Frederick Mario Fales. Già professore di Storia del Vicino Oriente all’università di Udine, è stato l’iniziatore degli scavi recenti nelle Grandi Terme di Aquileia, cominciati nel 2002. L’indagine nell’area archeologica, ora conferita dal ministero della Cultura alla Fondazione, prosegue ancora oggi: qui decine di archeologi si sono formati sotto il suo magistero e quello dei suoi collaboratori dell’ateneo udinese”.

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Frederick Mario Fales mentre decifra una tavoletta cuneiforme a Tell Shiukh Fawqani in Siria (1996, foto Alberto Savioli)

Fales è stato delegato agli scavi archeologici e ha fatto parte del Senato accademico dell’Ateneo friulano. Ha tenuto la prolusione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2006-2007 intitolata “L’Antico Oriente nel XXI secolo dopo Cristo”. Ha anche presieduto i corsi di laurea e di laurea specialistica in Beni culturali. Nel 1996 ha organizzato e diretto il primo scavo dell’università di Udine in Oriente, a Tell Shiukh Fawqani, nella Siria del nord. “L’ho incontrato la prima volta a Padova nel 1992”, ricorda l’archeologo Giancarlo Garna, “l’ho ritrovato in Siria nel 1999, mi ha chiamato e voluto ad Aquileia nel 2002, che dire, era immenso, una cascata travolgente di scienza, idee, e simpatia. Che la tua medicina non ti manchi ma, ciao Mario”. E l’archeologo Paolo Liverani: “Un grande dolore, ho scavato con lui nel 1985, una persona speciale!”. “Riposa in pace”, scrive l’archeologo Massimo Saracino. E l’archeologo Rocco Palermo: “Addio, Mario. Atene, Duhok, Udine, Monaco, Napoli, e tante altre. Ogni volta era un’occasione per ridere (molto) e imparare (moltissimo)”.

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Il professor Frederick Mario Fales (università di Udine)

Ha fondato (con la casa editrice Sargon di Padova) una rivista internazionale di studi neo-assiri, “Il Bollettino degli Archivi di Stato Assiri”, e la collana monografica Storia dell’Antico Vicino Oriente. I suoi lavori pubblicati includono circa 160 articoli su riviste accademiche, una decina di volumi congressuali o miscellanei e 13 monografie. Tra questi ultimi: “L’impero assiro. Storia e amministrazione, IX-VII sec. a.C.” (Roma-Bari 2001); “Saccheggio in Mesopotamia” (Udine 2004, 2004-6); “Guerre et paix en Assyrie: Religion et impérialisme” (Parigi 2010); “L’aramaico antico: storia, grammatica, testi commentati” (con G.F. Grassi, Udine 2016). Ha fondato e coordinato il Centro interdipartimentale per la Storia della medicina antica dell’università di Udine. Socio ordinario dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti, ha ricevuto il premio Internazionale “Luigi Tartùfari” per la Storia e la Letteratura orientale dall’Accademia dei Lincei nel 2017.

Venezia. Alla Fondazione Giancarlo Ligabue un altro riconoscimento internazionale: il catalogo in inglese della mostra “Power and Prestige” ottiene a Parigi il premio PIERRE MOOS, per il libro d’arte per Africa, Oceania, Asia e Americhe

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La copertina del catalogo Skira della mostra “Power and Prestige”

Un’altra importante attestazione è giunta in questi giorni alla Fondazione Giancarlo Ligabue con l’assegnazione del premio Internazionale del Libro d’Arte “Pierre Moos” istituito fin dal 2009 dalla rivista Tribal Art Magazine con l’obiettivo di mettere in risalto la qualità, la diversità e la ricchezza dell’editoria, in lingua francese o inglese, specializzata nel campo delle arti di Africa, Oceania, Asia e Americhe. Per l’anno 2022, la più importante rivista internazionale d’arte tribale e antropologia ha infatti assegnato il premio all’edizione inglese del catalogo della mostra “Power and Prestige” (ed Skira), esposizione co-promossa dalla Fondazione guidata da Inti Ligabue con il Musée du quai Branly di Parigi e realizzata in prima sede a Venezia e poi a nella capitale francese. Il premio è stato deciso da una giuria di giornalisti ed esperti presieduta da Stephane Martin, tra le più autorevoli personalità nel panorama museale, presidente di “Parcour des Mondes” 2023.

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Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue, e Steven Hooper curatore della mostra “Power and Prestige” e del catalogo, a Parigi con il premio Internazionale del Libro d’Arte “Pierre Moos” (foto fondazione ligabue)

Proprio a Parigi è volato il 7 settembre 2023 Inti Ligabue – nell’ambito della fiera internazionale “Parcour des Mondes” cui il premio è associato, con Christie’s come partner – per ricevere il trofeo insieme a Steven Hooper curatore della mostra e del catalogo. L’esposizione dedicata ai rari e sconosciuti bastoni del comando dell’Oceania – preziosi oggetti simbolici, strumenti rituali e vere e proprie opere d’arte, allestita a Palazzo Franchetti tra il 2021 e il 2022, aveva permesso di studiare e di portare all’attenzione del pubblico manufatti di incredibile fascino e valore storico e artistico, espressione delle diverse culture dei mari del Sud, sfatando l’idea che si trattasse semplicemente di armi.

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Bastoni di comando esposti nella mostra “Power and Prestige” promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue (foto fondazione ligabue)

Mostra e catalogo hanno riunito e documentato per la prima volta in Italia e in Europa ben 126 bastoni del comando: mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo, una decina delle quali appartenenti alla Collezione Ligabue. Il catalogo poi ha potuto contare su un’apposita campagna fotografica degli artefatti in mostra prestati da oltre 20 musei e collezione internazionali e, grazie ai nuovi e dettagliati studi a firma di alcuni tra principali esperti in materia, è diventato un punto di riferimento imprescindibile per l’arte oceanica.

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Inti Ligabue tra alcuni bastoni di comando della Collezione Ligabue esposti nella mostra “Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania” (foto di James Mollison)

“Questa attestazione è un onore e credo premi non solo il rigore scientifico del volume che vede, accanto a Steven Hooper, autori come Gaye Sculthorpe, capo della sezione Oceania del British Museum , Emmanuel Kasarhérou presidente del quai Branly, ma anche il coraggio di aver promosso una mostra interamente dedicata a oggetti tanto speciali rileggendone completamente il significato e la valenza”, ha commentato Inti Ligabue Presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue, “e al tempo stesso è un monito a continuare nella strada intrapresa della ricerca, della conoscenza e della divulgazione che da 50 anni portiamo avanti come Ligabue nel rispetto della diverse culture; un monito a operare per tenere viva in noi e nella società la curiosità del sapere e la voglia di scoprire tanti meravigliosi mondi”.

Venezia. “I Dialoghi della Fondazione Giancarlo Ligabue: a un passo dall’uomo”: storico incontro con l’etologa Jane Goodall e il paleoantropologo Donald Johanson, per la prima volta insieme sul palco del teatro Goldoni per i 40 anni del Ligabue Magazine

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La copertina di LM80, l’ultimo numero del Ligabue Magazine (foto fondazione ligabue)

Due delle firme più prestigiose del Ligabue Magazine si incontrano sul palco del Teatro Goldoni a Venezia – intervistati dall’autrice e conduttrice televisiva Sveva Sagramola – per un talk sull’Uomo, le sue origini e il futuro che lo aspetta. Due grandissimi protagonisti della scienza moderna a livello mondiale, due icone della ricerca internazionale sulle nostre origini e sui primati, due attivisti e divulgatori di fama internazionale in merito ai problemi dell’ambiente, della conservazione delle specie e del futuro della ricerca: l’etologa e antropologa inglese Jane Goodall e il paleoantropologo americano Donald Johanson saranno per la prima volta insieme, in un incontro specialissimo promosso a Venezia dalla Fondazione Giancarlo Ligabue e condotto da Sveva Sagramola, giornalista e volto notissimo della Rai, storica conduttrice della trasmissione televisiva di scienza e cultura “Geo e Geo” su Rai 3.

venezia_dialoghi-fondazione-ligabue_a-un-passo-dall-uomo_locandina“A un passo dall’uomo”. Tornano il 29 ottobre 2022, al teatro Goldoni di Venezia “I Dialoghi della Fondazione Giancarlo Ligabue” – conferenze e incontri a ingresso libero, con grandi studiosi, ricercatori ed esperti di diversi ambiti del sapere – in un appuntamento imperdibile e per certi versi emozionante, che vede dalle 17.30 sul palco veneziano la prima volta insieme l’etologa più celebre al mondo, grazie ai suoi rivoluzionari studi sugli scimpanzé e la loro somiglianza con gli esser umani (condotti nel Parco nazionale del Gombe), e lo studioso ricordato come lo scopritore di “Lucy”: scheletro di un ominide risalente a oltre tre milioni di anni fa e prima sconosciuto – ritrovato il 24 novembre 1974 nella regione di Afar, in Etiopia – che ha rivelato un tassello fondamentale dell’evoluzione della nostra specie.

venezia_ligabue-magazine_40anni Ligabue Magazine_Le copertine2_foto-fondazione-ligabuevenezia_ligabue-magazine_40anni Ligabue Magazine_Le copertine1_foto-fondazione-ligabueL’occasione dell’incontro pubblico, voluto fortemente da Inti Ligabue presidente della fondazione dedicata a Giancarlo Ligabue, è una ricorrenza importante: il quarantennale del “Ligabue Magazine”, la prestigiosa pubblicazione scientifico-culturale edita dall’allora Centro e Studi e Ricerche Ligabue e ora della Fondazione: un semestrale in doppia lingua dal design ricercato e dall’eccezionale  apparato iconografico e con un parterre di autori di primo piano: storici, scienziati, letterati ed esperti delle diverse discipline. Jane Goodall e Donad Johanson sono stati appunto tra le firme più illustri degli 80 numeri della rivista, che vanta la direzione editoriale di Alberto Angela ed è diretta dal 2018 da Alessandro Marzo Magno e che, in 40 anni, ha fatto registrare 4600 articoli in versione italiana e inglese, oltre 4mila autori, più di 20mila immagini, diverse migliaia di abbonati in oltre 30 Paesi nei 5 continenti. Una rivista che accompagna i lettori in perlustrazioni affascianti di mondi, culture, ambienti, presentando ricerche e studi in settori diversi in maniera sempre godibile, con un occhio di riguardo all’antropologia, all’archeologia e alla paleontologia. A guidare la scelta editoriale sono la passione per la conoscenza e la volontà della Fondazione e del suo presidente di sensibilizzare il pubblico su alcuni temi: il pericolo per la sopravvivenza di popoli e culture, la tolleranza e il rispetto, i rischi ambientali connessi all’inquinamento e alla deforestazione, la tutela di alcune specie animali a rischio estinzione, l’impatto dei cambiamenti climatici, ecc. E poi Venezia, alla quale ogni numero riserva attenzione, per ricordane storia e cultura, ma anche fragilità e pericoli.

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L’imprenditore e collezionista veneziano Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue (foto fondazione ligabue)

“È un onore e un’emozione grandissima”, commenta Inti Ligabue, “poter accogliere e presentare al pubblico, soprattutto ai più giovani che magari li conoscono meno, due menti illuminate, due antesignani di studi e ricerche nel mondo, che hanno dato un contributo fondamentale alle nostre conoscenze sui primati e sull’evoluzione della specie umana. Credo che poterli incontrare, sentire dalle loro voci i racconti di una vita dedicata alla ricerca, alla conoscenza, alla libertà del pensiero e alla difesa del nostro ambiente, dell’umanità e del pianeta, non possa che essere di ispirazione per tutti noi e per il nostro domani”.

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Jane Goodall con uno scimpanzé in Kenia nel 2000 (foto Jane Goodall institute)

Jane Goodall, PhD, DBE, fondatrice del Jane Goodall Institute e Messaggero di Pace delle Nazioni Unite, è nota in tutto il mondo per le sue ricerche pionieristiche sugli scimpanzé selvatici.  Oggi gira il mondo per parlare delle minacce che incombono sulle crisi ambientali, esortando ciascuno di noi ad agire per conto di tutti gli esseri viventi e del pianeta che condividiamo. Nel luglio del 1960, all’età di 26 anni, Jane Goodall si recò dall’Inghilterra in quella che oggi è la Tanzania e si avventurò nel mondo poco conosciuto degli scimpanzé selvatici. Equipaggiata con poco più di un taccuino, un binocolo e il suo grande interesse per la fauna selvatica, Jane Goodall sfidò un regno di incognite per dare al mondo una straordinaria finestra sui parenti viventi più stretti dell’umanità. In quasi 60 anni di lavoro innovativo, la dottoressa Jane Goodall non solo ha dimostrato l’urgente necessità di proteggere gli scimpanzé dall’estinzione, ma ha anche ridefinito la conservazione delle specie includendo le esigenze delle popolazioni locali e dell’ambiente. Nel 1977 la dott.ssa Goodall ha fondato il Jane Goodall Institute, attivo anche in Italia, che continua la ricerca su Gombe ed è leader mondiale nell’impegno per la protezione degli scimpanzé e dei loro habitat.  L’Istituto è ampiamente riconosciuto per i suoi programmi innovativi di conservazione e sviluppo in Africa, incentrati sulle comunità locali, e per Roots & Shoots, il programma ambientale e umanitario globale per i giovani di tutte le età.

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Tanzania, 1987: Donald Johanson mostra il ritrovamento di un altro scheletro di ominide durante gli scavi nell’Olduvai (foto Archivio Fondazione Giancarlo Ligabue)

Donald Johanson. Molti considerano Donald Johanson uno dei più importanti e completi paleoantropologi del nostro tempo. Nel corso della sua illustre carriera, ha prodotto alcune delle scoperte più importanti del settore, tra cui il reperto fossile più conosciuto e studiato del XX secolo: lo scheletro di Lucy. Da quando Charles Darwin ha proposto la teoria dell’evoluzione nella sua pubblicazione del 1859, On the Origin of Species by Means of Natural Selection (L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale), gli scienziati hanno ipotizzato il posto dell’uomo nella natura. Darwin ipotizzò che non solo la specie umana fosse un prodotto del processo evolutivo, ma che nel passato preistorico condividessimo un antenato comune con le scimmie africane. Sebbene il XX secolo sia stato costellato da importanti ritrovamenti di ominidi fossili provenienti sia dall’Africa orientale che da quella meridionale, fu la scoperta del 1974 da parte del dottor Johanson di un fossile di ominide di 3,2 milioni di anni fa in Etiopia ad aggiungere un collegamento cruciale. Lucy, come fu chiamato lo scheletro, ha suscitato un dibattito continuo e importanti revisioni nella nostra conoscenza e comprensione del passato evolutivo dell’uomo. Lo scheletro possedeva un’intrigante miscela di caratteristiche simili a quelle delle scimmie, come il volto sporgente e il cervello piccolo, ma anche di caratteristiche che consideriamo umane, come la camminata eretta. Lucy continua a essere un diadema nella corona dei fossili di ominidi e funge da importante pietra di paragone per tutte le scoperte successive.

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Tanzania, 1987: Donald Johanson e Alberto Angela mentre esaminano resti fossili (foto Archivio Fondazione Giancarlo Ligabue)

Nei 34 anni trascorsi da quando Johanson ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Chicago, ha condotto esplorazioni sul campo in Etiopia, Tanzania e Medio Oriente e ha raggiunto efficacemente diverse piattaforme mediatiche: ha condotto e narrato la serie In Search of Human Origins della PBS/NOVA, nominata agli Emmy, è stato coautore di nove libri e ha tenuto conferenze presso università, aziende e forum pubblici per condividere le sue scoperte e stimolare un sano dibattito. Spinto dall’idea che non possiamo comprendere appieno chi siamo e dove siamo diretti come specie finché non abbiamo una conoscenza più completa delle nostre radici evolutive, Johanson ha fondato l’Institute of Human Origins nel 1981 come centro di riflessione sull’evoluzione umana e si è unito all’Arizona State University con un centro di ricerca nel 1997. L’istituto è oggi considerato uno dei centri di ricerca sulle origini umane più importanti al mondo. Johanson è membro onorario dell’Explorers Club, membro della Royal Geographical Society e membro distinto dell’Accademia delle Scienze di Siena. È inoltre titolare della cattedra Virginia M. Ullman sulle origini umane presso l’Arizona State University, dove insegna.

Venezia. Incontro della Fondazione Giancarlo Ligabue con Davide Domenici su “Dall’isola di Pasqua a Rapa Nui. 300 anni di storia tra mito, ricerca e rinascita politico-culturale” a margine della mostra “Power & Prestige. Simboli del comando in Oceania”: occasione di riflessione sui falsi miti creati dalla ricerca archeologica dopo la “scoperta” europea dell’isola nel 1722

Due monumentali moai sull’Isola di Pasqua (foto fondazione ligabue)

Logo Fondazione Giancarlo LigabueSono trascorsi 300 anni dalla “scoperta” europea ad opera del navigatore olandese Jacob Roggeveen. E l’Isola di Pasqua, dove vivono attualmente circa 3mila mila persone e che solo da poco si chiama ufficialmente con il suo nome originario Rapa Nui, rimane uno dei luoghi più ricchi di fascino e mistero del nostro pianeta. Proprio Rapa Nui sarà al centro dell’incontro, promosso dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, e coordinato da Adriano Favaro, dal titolo “Dall’isola di Pasqua a Rapa Nui. 300 anni di storia tra mito, ricerca e rinascita politico-culturale”. Davide Domenici, antropologo, professore all’università di Bologna, che negli anni ’90 ha partecipato alla missione archeologica nell’Isola di Pasqua della Fondazione Ligabue, ripercorre i principali eventi politici e culturali degli ultimi tre secoli in questa remota isola del Pacifico meridionale. Interverranno anche Inti Ligbaue, presidente di Fondazione G. Ligabue di Venezia, e Andrea Rinaldo presidente dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Appuntamento il 18 febbraio 2022, alle 18, all’M9 – MUSEO DEL ’900 di Mestre, nell’auditorium “Cesare De Michelis”. Prenotazione obbligatoria al link: www.emma4culture.com. L’evento avrà luogo in ottemperanza alle norme vigenti in materia di sicurezza sanitaria anti Covid-19. Obbligatorio l’utilizzo della mascherina Ffp2.

Giancarlo Ligabue durante la missione archeologica sull’Isola di Pasqua – Rapa Nui (foto fondazione ligabue)
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L’archeologo americanista Davide Domenici dell’università di Bologna

Il dialogo con Davide Domenici sarà anche una riflessione su come la ricerca archeologica ha contribuito – creando “miti” divenuti metri di giudizio per giudicare la popolazione indigena contemporanea – alla controversa e contraddittoria storia moderna dell’isola cilena. Negli ultimi anni, anche grazie a nuove percezioni di ciò che Rapa Nui è stata nel contesto del passato polinesiano, l’isola sta vivendo un momento di forte rinascita politico-culturale e di riaffermazione identitaria. “Quando pensiamo all’Isola di Pasqua, immediatamente ci sovviene l’immagine di un passato intriso di fascino e mistero: ma quell’immagine è in gran parte il frutto della storia moderna dell’isola – cioè successiva alla “scoperta” europea del 1722 -, una storia spesso tragica ma anch’essa straordinariamente avvincente”, afferma Davide Domenici.

Inti Ligabue tra alcuni bastoni di comando della Collezione Ligabue esposti nella mostra “Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania” (foto di James Mollison)

La conferenza del 18 febbraio 2022 in M9 è collegata alla mostra “Power & Prestige. Simboli del comando in Oceania” in corso a Venezia a Palazzo Franchetti, sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, organizzata dalla Fondazione Giancarlo Ligabue, visitabile fino al 13 marzo 2022. Nell’esposizione sono raccolti 126 simboli del comando – che in passato erano stati ritenuti anche strumenti di battaglia – delle popolazioni oceaniche. Oltre che prestiti di collezionisti privati e pubblici, alcuni di questi materiali arrivano dai più prestigiosi musei del mondo; alcuni appartengono alla collezione Ligabue. In esposizione a Venezia ci sono anche oggetti provenienti da Rapa Nui (“grande isola” nel linguaggio locale). Dopo Venezia la mostra – la prima del suo genere mai realizzata in Europa – si trasferirà nella sede del Quai Branly Museo Jaques Chiriac a Parigi, il più importante centro di arte primitiva francese.


Venezia. “La scoperta continua”: Inti Ligabue presenta i recenti studi, i sorprendenti risultati del test al radiocarbonio, che retrodata di due secoli un bastone del potere proveniente dalle isole Fiji esposto alla mostra “Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania”, e le prossime ricerche

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Inti Ligabue tra alcuni bastoni di comando della Collezione Ligabue esposti nella mostra “Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania” (foto di James Mollison)

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La copertina del catalogo Skira della mostra “Power and Prestige”

I bastoni del comando dell’Oceania – solitamente classificati come armi primitive anche se in molti casi mai utilizzati come tali, in realtà anche bellissime sculture in legno, pietra e osso di balena, manufatti dai molteplici usi e significati, pezzi unici espressione della creatività e della capacità di straordinari artigiani – erano tra i materiali più diffusi e ancora prodotti quando, tra Sette e Ottocento, le spedizioni del Vecchio Continente iniziarono a giungere con frequenza in quelle terre, prima che i missionari e le amministrazioni coloniali ne scoraggiassero la produzione. Oggetto di curiosità e ammirazione, di studio e di collezionismo, vennero portati in Occidente da avventurieri, ricercatori, commercianti, missionari e ufficiali coloniali. Eppure, proprio perché a lungo considerati strumenti cruenti di selvaggi, furono costretti a un ruolo minore nei musei e nelle esposizioni. Fino al 13 marzo 2022, i bastoni del comando dell’Oceania si possono ammirare nella loro stupefacente bellezza scultorea, a Venezia, a Palazzo Franchetti, nella mostra “POWER & PRESTIGE. Simboli del comando in Oceania”, curata da Steven Hooper direttore del Sainsbury Research Unit per le Arti dell’Africa, Oceania e delle Americhe presso l’università dell’East Anglia nel Regno Unito – tra i massimi esperti internazionali in materia -, co-promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue con il Musée du quai Branly di Parigi: 126 bastoni del comando, mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo, una decina delle quali appartenenti alla Collezione Ligabue.

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Una fase della raccolta dati da un bastone di comando dell’Oceania per le analisi al radiocarbonio (foto ligabue)

A poco più di un mese dal termine della mostra, il presidente Inti Ligabue ha annunciato una grande scoperta: “Retrodatiamo di due secoli la nascita di questi oggetti e ne avvaloriamo il significato di oggetti di culto”. La Fondazione Giancarlo Ligabue ha infatti voluto avviare, in occasione della mostra, indagini che potessero aiutare a fare luce sul significato e la valenza di questi oggetti, al di là dei luoghi comuni e delle visioni stereotipate che li avevano relegati a mere armi di indigeni. Un test al radiocarbonio effettuato nei laboratori di ricerca a Mannheim in Germania – un esame promosso per la prima volta su un bastone del potere oceanico – è stato utilizzato per datare un raro manufatto esposto nella mostra “Power & Prestige”, con un risultato sorprendente. Documentato in una collezione privata inglese alla metà del secolo scorso e probabilmente giunto in Europa dalle isole Fiji nella metà dell’Ottocento, questo Kinikini, conservato in una collezione privata – un bastone di comando a pagaia insolitamente grande (134 cm di lunghezza) e ricoperto da una patina scura – veniva datato come molti altri raffinati manufatti tra gli inizi del XVIII e XIX secolo. I risultati del test al radiocarbonio mostrano invece, con una probabilità del 95,4%, che l’albero da cui è stato ottenuto il legno utilizzato per questo club è morto tra il 1491 e il 1638 d.C. Un dato certamente relativo al materiali e non al manufatto, che tuttavia indica che il bastone potrebbe avere, con assoluta probabilità, un’età compresa tra i 380 e i 530 anni circa. Si sa infatti, dalla pratica attuale degli intagliatori delle Fiji, che un albero caduto non può essere lasciato nella foresta generalmente più di dieci anni prima d’essere intagliato, poiché il legname in questi ambienti tropicali si deteriora rapidamente. Logo Fondazione Giancarlo Ligabue“L’indagine al carbonio 14 non era mai stata tentata su bastoni del potere oceanici, ritenuti oggetti troppo “giovani” per essere sottoposti a questo test”, continua Inti Ligabue. “Si aprono ora nuove prospettive nella considerazione di questi artefatti e nella conoscenza dei grandi navigatori del Pacifico, avvalorando per altro la testi che ci ha spinti a realizzare la mostra Power & Prestige. Lo scopo della nostra Fondazione – continua Inti Ligabue – è infatti “conoscere e far conoscere” e dunque il nostro obbiettivo è progettare e promuovere eventi culturali che siano sì divulgativi ma anche occasione di riflessione e confronto da parte degli esperti, avvalendoci delle diverse metodologie e degli strumenti di cui oggi disponiamo”.

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La locandina della conferenza “La scoperta continua” di Inti Ligabue all’Ateneo Veneto

Lunedì 14 febbraio 2022 Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue, racconterà di persona – nell’ambito del ricco programma di incontri e iniziative promosse dall’Ateneo Veneto – i recenti studi, i sorprendenti risultati di un test al radiocarbonio, che retrodata di due secoli un bastone del potere proveniente dalle isole Fiji esposto alla mostra “Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania”, e le prossime ricerche che accompagnano questo evento unico. Appuntamento alle 17.30, nell’aula magna dell’Ateneo Veneto, per la conferenza “La scoperta continua” di Inti Ligabue con Alex Bernard, importante studioso e collezionista che ha collaborato con Steven Hooper alla curatela della mostra e autore di un saggio sulle molteplici forme dei club oceanici nel catalogo della mostra edito da Skira. Come afferma il suo Presidente, lo scopo di Fondazione Giancarlo Ligabue è quello di “conoscere e far conoscere”, quindi “ anche le mostre e gli eventi culturali devono essere mezzi di divulgazione della cultura, ma anche occasione di studio e confronto tra esperti per accrescere il nostro sapere”. Una visione che ben si sposa con quella dell’Ateneo Veneto sede della conferenza: la più antica istituzione culturale in attività a Venezia, che dal 1812 si muove con lo scopo di cooperare allo sviluppo e alla diffusione delle scienze, delle lettere, delle arti, in ogni loro manifestazione. Ligabue e Bernard parleranno dunque anche delle varie funzioni dei club, del loro significato e dell’impressionante diversità di forme, dimensioni, materiali e funzioni che li contraddistinguono. La Conferenza all’Ateneo Veneto è a ingresso libero fino ad esaurimento dei posti disponibili. Si accede con green pass rafforzato e mascherina FFP2.

“I Neanderthal sono ancora tra noi”: a Palazzo Franchetti la fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia incontra il paleoantropologo Giorgio Manzi sul libro “L’ultimo Neanderthal racconta. Storie prima della storia”. Visita guidata alla mostra “Power & Prestige. Simboli del comando in Oceania”

“Sono seduto su un grande masso di fronte al mare. Alle mie spalle la grotta del Monte Circeo frequentata dai Neanderthal”. Con queste parole Giorgio Manzi nel libro “L’ultimo Neanderthal racconta. Storie prima della storia” (edizioni Il Mulino) inizia un sogno: un incontro immaginario tra un paleoantropologo e l’ultimo dei Neanderthal. I due condividono le competenze di oggi e le esperienze vissute nel tempo profondo. Dialogano così sull’origine, sulle caratteristiche e sui comportamenti dei Neanderthal, come pure sul loro destino. Ne deriva l’affascinante narrazione di una specie simile alla nostra, ma anche profondamente diversa da noi, con la quale ci siamo confrontati dopo centinaia di millenni di separazione evolutiva. Non solo, però: la vicinanza genetica ha reso possibili incroci che hanno lasciato tracce durature in tutti noi. I Neanderthal sono ancora qui. Per il ciclo “I Neanderthal sono ancora tra noi” il noto paleoantropologo Giorgio Manzi, docente all’università La Sapienza di Roma, sarà ospite della Fondazione Giancarlo Ligabue. Il nuovo appuntamento con la paleontologia, l’antropologia e lo studio del passato “Giorgio Manzi racconta: i Neanderthal, uno specchio in cui osservare noi stessi” è in programma venerdì 19 novembre 2021, alle 17.30, nella Sala del Portego di Palazzo Franchetti a Venezia, dove è in corso la mostra “Power & Prestige. Simboli del comando in Oceania”. In occasione dell’evento – con ingresso gratuito e capienza limitata in base alle norme vigenti anti contagio – i partecipanti possono usufruire alle 17 di una visita guidata della mostra “Power & Prestige”, con una riduzione sul normale prezzo del biglietto d’ingresso. L’ingresso consentito solo ai possessori di Green Pass. Per informazioni: 0412705616; prenotazioni@fondazioneligabue.it

Copertina del libro “L’ultimo Neanderthal racconta. Storie prime della storia” (Il Mulino) di Giorgio Manzi
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Il paleoantropologo Giorgio Manzi

Al centro della conferenza, l’incontro immaginario tra il paleoantropologo e l’ultimo dei Neanderthal, filo conduttore dell’ultima fatica editoriale di Manzi uscita da poche settimane per le edizioni de Il Mulino: “L’ultimo Neanderthal racconta. Storie prima della storia”. Di fronte alla Grotta del Monte Circeo, Manzi sogna e immagina di trovarsi faccia a faccia con uno dei rappresentanti dell’umanità “forse il più iconico della preistoria”.  Giorgio Manzi è professore di Antropologia alla Sapienza – Università di Roma. Accademico dei Lincei, è stato direttore del Polo museale Sapienza e segretario generale dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Editorialista di “Le Scienze”, collabora con quotidiani, periodici, trasmissioni radio e tv. Fra i libri per il Mulino: “Il grande racconto dell’evoluzione umana” (2018), “Ultime notizie sull’evoluzione umana” (2017).

Ricostruzione di un cranio di Neanderthal (La Ferrassie 1, con integrazioni) e, sullo sfondo, il modello di un cranio umano moderno. Da una ricostruzione esposta all’American Museum of Natural History di New York (foto fondazione ligabue)

Vissuti nel tardo Pleistocene, diffusi in Europa ma anche più a oriente nel vasto territorio compreso tra il Mediterraneo e le steppe della Mongolia, inevitabilmente i Neanderthal dovettero incontrarsi e confrontarsi con gli Homo Sapiens partiti dall’Africa. La vicinanza genetica ha reso possibili incroci, ibridazioni che ebbero scarsa fortuna ma che hanno lasciato tracce molto durature tuttora presenti nel DNA di molte nostre popolazioni. I Neanderthal – che hanno abitato anche la nostra penisola – sono dunque ancora qui e la paleoantropologia che studia i reperti fossili utilizzando le più moderne tecniche di un’ampia varietà di discipline ci permette di conoscerli sempre meglio. Le scoperte si susseguono in questi ultimi anni, basti pensare ai recenti, eccezionali rinvenimenti legati alla grotta Guattari nel Circeo, e ciò aiuterà a comprendere meglio anche la nostra storia.

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Inti Ligabue, presidente della fondazione Giancarlo Ligabue, tra i bastoni di comando della collezione Ligabue (foto James Mollison)

“La preistoria antica, il Paleolitico, occupa la quasi totalità del nostro passato bioculturale, il 99,5% della nostra esistenza come genere Homo”, ricorda Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue. “Un periodo lunghissimo dell’evoluzione in cui affondano le nostre origini umane e sul quale gli studiosi devono ancora fare piena luce; un periodo che offre continui spunti e nuove conoscenze. Anche per questo ci piace proporre le riflessioni di Giorgio Manzi che da anni affronta questi temi collaborando con colleghi di discipline diverse: nuove strade della conoscenza che la Fondazione vuole percorrere”.

Venezia intitola il museo di Storia Naturale a Giancarlo Ligabue, l’imprenditore-paleontologo che proprio a quel museo ha dato, in dono o in deposito permanente, oltre duemila reperti frutto delle sue spedizioni scientifiche in tutto il mondo, tra cui gli scheletri di un dinosauro e di un coccodrillo gigante

La locandina per l’intitolazione del museo di Storia Naturale di Venezia a Giancarlo Ligabue

Foto di gruppo per l’intitolazione del museo di Storia Naturale di Venezia a Giancarlo Ligabue

In cuor suo l’aveva sempre considerato il “suo” museo, perché era il museo della sua città, Venezia, che le aveva dato i natali e che non ha mai lasciato. Non è un caso che al ritorno dalle sue spedizioni scientifiche paleontologiche e archeo-antropologiche in tutto il mondo Giancarlo Ligabue al museo di Storia Naturale di Venezia avesse dato, tra donazioni e deposito permanente, oltre duemila reperti, alcuni eccezionali come gli scheletri di “ouranosaurus nigeriensis” e del coccodrillo “sarcosuchus imperator”, con una sola richiesta: che questo tesoro venisse “degnamente esposto”. Si può immaginare perciò prima la sua intima sofferenza a vedere il “suo” museo chiuso per anni per lavori di riallestimento, poi la gioia alla riapertura nel 2010, quando il paleontologo era già malato, di vedere il “suo” dinosauro nel nuovo percorso e di potersi intrattenere per un’ultima volta, come amava fare lui, con i giovani visitatori, raccontando loro aneddoti e avventure. A quasi cinque anni dalla morte, avvenuta nel gennaio 2015, del grande imprenditore-paleontologo, Venezia ha deciso di intitolare a Giancarlo Ligabue il museo naturalistico della città, tra i più visitati della Fondazione Musei Civici di Venezia, ospitato nel bellissimo edificio del XIII secolo che fu il Fontego dei Turchi, affacciato sul Canal Grande: dal 30 ottobre 2019 il nome ufficiale è museo di Storia Naturale di Venezia “Giancarlo Ligabue”. Una decisione presa nei mesi scorsi dalla giunta comunale di Venezia su richiesta del sindaco Luigi Brugnaro e appoggiata dalla presidenza e dalla direzione della Fondazione Musei Civici di Venezia e il 30 ottobre 2019 ufficialmente sancita, a ricordare la passione per la ricerca, ma soprattutto l’impegno profuso nei confronti di questo museo e della città, da parte dell’imprenditore – paleontologo Giancarlo Ligabue.

Giancarlo Ligabue, imprenditore e paleontologo, nella sua casa-museo sul Canal Grande a Venezia

Veneziano, alla guida di un’azienda di catering e approvvigionamenti navali ereditata dal padre e da lui resa internazionale, che festeggia quest’anno il primo secolo di attività, Giancarlo Ligabue (1931 -2015) era anche un appassionato studioso, ricercatore ed esploratore. Una personalità eclettica della cultura, un moderno avventuriero assetato di sapere e di conoscenza del passato come del presente, desideroso di capire i mondi e le culture diverse; un collezionista instancabile, sostenitore di giovani ricercatori e di grandi imprese scientifiche. Un uomo che ha saputo alternare la sua vita di imprenditore con quella di studioso – un dottorato in paleontologia alla Sorbona e cinque lauree honoris causa – attingendo al suo dna di esploratore per l’una e per l’altra attività.

Il logo del Centro studi e ricerche Ligabue

Con il Centro Studi e Ricerche Ligabue da lui istituito, forte di un comitato scientifico internazionale, Giancarlo ha promosso o sostenuto in 40 anni – spesso guidandole direttamente – oltre 130 spedizioni nei diversi continenti a fianco delle principali istituzioni scientifiche internazionali, scoprendo sei giacimenti di dinosauri, cinque di ominidi fossili, diverse etnie in via di estinzione o sconosciute al mondo occidentale, e ancora città sepolte, necropoli, insediamenti, centri megalitici, pitture e graffiti rupestri, nuove specie di animali e impronte fossili. Diversi gli ambiti di interesse – paleontologia, etnografia, archeologia, scienze naturali -, tantissime le pubblicazioni scientifiche, le testimonianze e i materiali documentari che oggi vengono valorizzati dalla Fondazione che porta il suo nome, voluta e presieduta dal figlio Inti Ligabue: un’istituzione che prosegue l’impegno del Centro Studi scegliendo la via della ricerca e della divulgazione, con l’intento di “conoscere e far conoscere” e con tante iniziative culturali offerte alla città.

Giancarlo Ligabue nel deserto del Tenerè nel sito di Gadoufaoua (Niger)

Il rapporto tra Giancarlo Ligabue e il museo di Storia Naturale di Venezia inizia nella metà degli anni Settanta del Novecento in seguito a una missione di scavo organizzata dal paleontologo-imprenditore veneziano nel deserto del Ténéré, nel Niger orientale, in collaborazione con Philippe Taquet del museo nazionale di Storia Naturale di Parigi. Le operazioni di scavo iniziarono il 17 novembre del 1973 nel sito di Gadoufaoua (Niger) – che significa “dove fuggono i cammelli” – e si protrassero per circa un mese. La vastità e la ricchezza del giacimento permisero di raccogliere un’enorme quantità di fossili che, consolidati dai tecnici della spedizione, vennero trasportati in Europa per essere restaurati e studiati al museo parigino. Si tratta di fossili di organismi vissuti nel Cretaceo inferiore, circa 110 milioni di anni fa, che testimoniano un clima caldo umido con un paleoambiente caratterizzato da una foresta tropicale con alberi alti fino a trenta metri e grandi zone paludose in cui vivevano pesci e molluschi.

Giancarlo Ligabue al museo di Storia Naturale di Venezia davanti al dinosauro scoperto in Niger e donato alla sua città

Tra i fossili più importanti c’era lo scheletro quasi completo di un Ouranosaurus nigeriensis, lungo oltre sette metri. Giancarlo Ligabue decise di donare alla città di Venezia lo scheletro del dinosauro – l’unico pressoché completo in un museo italiano – assieme ad altri fossili dello stesso giacimento e ad un impressionante scheletro di coccodrillo Sarcosuchus imperator, la specie di coccodrillo più grande mai esistita. Gli straordinari reperti vennero trasportati a Venezia ed esposti al pubblico nel 1975. Ligabue voleva che il materiale donato venisse “degnamente esposto”: volle essere coinvolto nella sistemazione dei reperti paleontologici all’interno del museo e partecipò alle spese di trasporto e allestimento. Per Giancarlo il museo divenne l’altra grande passione della vita. Vedere i bambini ammirati davanti al “suo” dinosauro lo emozionava. Prima quasi dimenticato, il museo veneziano ricevette da questo straordinario evento un nuovo slancio. Nel 1978 il sindaco di Venezia Mario Rigo nominò Ligabue presidente del museo, una carica onorifica ma che investì Giancarlo di nuovo entusiasmo. Fu anche presidente del comitato scientifico internazionale che egli stesso aiutò a comporre insieme all’allora direttore.

Inti Ligabue alla cerimonia di intitolazione del museo di Venezia al padre Giancarlo

Al museo, frutto di campagne di scavo e spedizioni scientifiche in tutto il mondo, Giancarlo Ligabue donò e diede in deposito permanente, a partire dagli anni Settanta e poi per la riapertura delle sale espositive tra il 2010 e il 2011, oltre 2000 reperti. Negli anni Ottanta e Novanta furono sviluppati anche singoli progetti di allestimento con materiali della sua collezione: una saletta di museologia scientifica al piano terra; la sala di icnologia, originalissima, che conteneva una straordinaria raccolta di impronte e tracce fossili. La grande mostra “I Dinosauri del Deserto del Gobi” del 1992, ispirata dalle spedizioni in Mongolia finanziate dal Centro Studi e Ricerche, grazie all’intermediazione di Giancarlo presentò per la prima volta in Occidente molti scheletri completi di dinosauro, facendo registrare oltre 120mila visitatori. Un numero sorprendente se si pensa che nel decennio precedente la media era attestata attorno ai 20mila visitatori l’anno.

L’esploratore Giovanni Miani

Oggi la prima sala del museo di Storia Naturale di Venezia divenuto, con i suoi 80mila visitatori annui, uno dei più visitati in laguna – una sala di grande effetto scenico, portale d’accesso alla sezione paleontologica – è dedicata proprio alla spedizione che Giancarlo Ligabue organizzò nel deserto del Ténéré e ai due giganteschi, straordinari reperti che hanno resa famosa quell’avventura, celebrata dalla stampa internazionale e di tutto il mondo. Quindi, nella sezione del museo dedicata agli “esploratori veneziani, racconti di viaggi, ricerche e spedizioni”, la figure di Giancarlo è ricordata in un’apposita sala, accanto a grandi protagonisti delle ricerche di fine Ottocento-inizi Novecento, come Giovanni Miani e Giuseppe de Reali. L’intitolazione ora del ma Giancarlo Ligabue segna la definitiva consacrazione di un legame di affetto e il riconoscimento di una generosità e di un impegno fondamentali, mai sopiti.

Il Fontego dei Tedeschi, sede del museo di Storia Naturale di Venezia, con la piroga proveniente dalla Nuova Guinea conservata nell’affaccio del palazzo

Un uovo di dinosauro della Collezione Ligabue

La collezione Giancarlo Ligabue, conservata al museo di Storia Naturale di Venezia, conta oltre 2000 reperti di paleontologia, etnografia, archeologia, scienze naturali, frutto di campagne di scavo e spedizioni scientifiche in tutto il mondo. La maggior parte dei reperti si può ammirare lungo il percorso espositivo, in particolare nella sezione paleontologica “sulle tracce della vita” e nella sala dedicata al Centro Studi e Ricerche Ligabue della sezione “Raccogliere per stupire, raccogliere per studiare”. Tra i reperti più significativi – come si diceva – lo scheletro di Ouranosaurus nigeriensis con i reperti provenienti dalla spedizione nel deserto del Ténéré; un ricca collezione di uova dinosauro e icnofossili, la piroga proveniente dalla Nuova Guinea che caratterizza l’affaccio sul Canal Grande del museo; gli affascinanti crani degli antenati Asmàt; una raccolta di divinità antropomorfe; una serie di asce e strumenti delle diverse età dei metalli; uccelli, insetti e molluschi esotici.

L’esemplare di Ouranosaurus nigeriensis scoperto da Giancarlo Ligabue e simbolo del museo di Venezia

Ouranosaurus nigeriensis Gli ouranosauri, particolari iguanodonti ritrovati solamente a Gadoufaoua nel deserto del Ténéré, raggiungevano una lunghezza di sette metri, un’altezza di tre metri e un peso di forse due tonnellate. Il loro scheletro è massiccio, con zampe adatte a un’andatura fondamentalmente quadrupede, ma con la possibilità di utilizzare la postura eretta per raggiungere le parti più alte della vegetazione o per porsi in posizione di difesa. Le zampe posteriori sono fornite di tre dita con unghie a forma di zoccolo mentre quelle anteriori, a cinque elementi, presentano sia un “mignolo” estremamente flessibile e funzionale forse per la raccolta del cibo sia un “pollice” modificato in una struttura prominente appuntita, usata forse come arma o come strumento di richiamo sessuale. La bocca è caratterizzata dalla presenza di una sorta di becco privo di denti, utilizzato per afferrare e strappare vegetali; posteriormente si trovano due file di denti adatti a triturare il cibo. Caratteristica della specie è la presenza di lunghe spine neurali sulle vertebre dorsali e su parte di quelle caudali, probabilmente ricoperte dalla pelle in modo continuo a formare una lunga cresta rigida, una specie di “vela” le cui funzioni sono solamente ipotizzabili. È possibile che fosse usata come regolatore termico, per assorbire o rilasciare il calore a seconda delle necessità. Altre possibili funzioni potrebbero essere legate alla riproduzione (richiamo sessuale) o alla difesa (per sembrare più grande ai predatori).

Il fossile di Sarcosuchus imperator scoperto da Giancarlo Ligabue e conservato al museo di Venezia (foto da http://www.boneclones.com)

Sarcosuchus imperator Il sarcosuco è considerato la specie di coccodrillo più grande mai esistita: poteva raggiungere una lunghezza di 12 metri e pesare 8 tonnellate. Possedeva un centinaio di denti lunghi fino a 10 centimetri, robusti, lisci e arrotondati, adatti ad afferrare grosse prede e a frantumarne le ossa. I suoi denti superiori e inferiori, a differenza di quelli dei coccodrilli piscivori, non venivano a trovarsi intervallati a fauci serrate, poiché probabilmente non si nutriva solo di pesci di grossa taglia ma anche di animali terrestri come piccoli dinosauri. Come in tutti i coccodrilli, gli occhi e le narici situati sulla sommità del cranio gli permettevano di nuotare quasi completamente nascosto sotto il pelo dell’acqua, tendendo imboscate alle prede sulle rive dei fiumi per poi trascinarle in acqua e ucciderle. Il corpo era ricoperto dorsalmente da file di piastre ossee sovrapposte a formare una sorta di armatura, estesa dal collo a circa metà lunghezza della coda che, assieme alla forma delle vertebre, limitava la flessibilità del corpo e la velocità dei movimenti. All’estremità del muso è presente una grossa protuberanza ossea arrotondata, simile a quella degli attuali gaviali indiani in cui, probabilmente, alloggiava un’ampia cavità nasale sferica denominata “bulla”. Gli studiosi ritengono che potesse migliorare l’olfatto e forse consentirgli di emettere richiami impressionanti analogamente a quanto fanno gli attuali gaviali in particolare durante gli accoppiamenti.

Icnofossili: tracce fossili lasciate dal passaggio di animali

Gli icnofossili Sono chiamati icnofossili le tracce fossili lasciate da antichi organismi nel loro ambiente come orme del passaggio di un animale, escrementi, resti di una tana o di un nido e molte altre tracce conservate nella roccia. Gli icnofossili sono di grande importanza per gli studi etologici sugli organismi estinti; grazie a essi si possono infatti ricostruire il loro comportamento, l’ambiente in cui essi si muovevano, il modo in cui si nutrivano, cacciavano, o più semplicemente si spostavano. I numerosi icnofossili esposti nel Museo, appartenenti alla collezione Ligabue, costituiscono una raccolta unica in Italia. Tra i reperti esposti in apposite teche trasparenti nel pavimento delle sale si possono notare le orme lasciate dai trilobiti nei loro spostamenti su un fondale marino del primo Paleozoico, le impronte dei primi vertebrati come quelle dell’Eryops, un grande anfibio che visse circa 300 milioni di anni fa, e quelle lasciate da un pelicosauro, un rettile sinapside del Permiano caratterizzato da una grande vela dorsale. Particolarmente interessanti sono l’ultimo percorso di un limulo sui sedimenti di una laguna del Giurassico e l’orma di un celurosauro, dinosauro carnivoro che visse in Istria nel Mesozoico, e la pista lasciata da un uccello nel fango eocenico della Provenza.

Inti Ligabue e Philippe Taquet del museo nazionale di Storia Naturale di Parigi che promosse la spedizione scientifica nel deserto del Tenerè con Giancarlo Ligabue

Il ritrovamento dell’Ouranosaurus nigeriensis nel deserto del Teneré dalal spedizione di Giancarlo Ligabue

La prima impresa scientifica giacimento di Gadoufaoua – deserto di Ténéré. Nel febbraio del 1973 fu organizzata da Philippe Taquet del museo nazionale di Storia Naturale di Parigi e da Giancarlo Ligabue una spedizione nel deserto del Ténéré (Niger orientale) alla ricerca dei dinosauri. Il giacimento individuato si estendeva su una superficie di circa 175 chilometri per 2 di larghezza con una potenza (spessore) calcolata in 60 metri, le qui rocce erano prevalentemente formate dal grés. Il periodo geologico, a cui il giacimento appartiene, è riferibile all’Aptiano-Albiano (circa 100 milioni di anni fa). È considerato uno dei giacimenti di dinosauri più vasti al mondo ed è costituito dall’antico letto di un grande fiume che nasceva dalle alte montagne allora esistenti nella vicina Nigeria. Nella parte a monte, le acque scendevano in modo impetuoso per poi calmarsi; a valle scorrevano tranquille in una vasta pianura formando ampie paludi, meandri, laghi, dove le continue alluvioni depositavano sabbie e finissimi sedimenti argillosi, creando così le condizioni ideali per la presenza di una folta e varia vegetazione, costituita prevalentemente da foreste di Araucaria e di felci. Il clima presente allora era di tipo caldo temperato. In questo ambiente si sono rinvenute, allo stato fossile, alcune presenze vegetali di Crittogame come le Felci e le prime Fanerogame con fiore (piante caratterizzate dal fiore e dal seme). Nella parte a valle del fiume, vivevano i Lepidotes, di grandi pesci che superano il metro di lunghezza. Si sono rinvenute diverse grosse conchiglie Unio, Lamellibranchi caratteristici delle acque dolci a lento scorrimento, alimento ricercato dei pesci presenti allora nel fiume. La spedizione ha rinvenuto carapaci di tartaruga e altri resti di piccoli rettili, nonché la mandibola di un gigantesco coccodrillo Sarcosuchus imperator, rassomigliante al Gaviale del Gange, lungo oltre 12 metri, esposto al museo naturale di Venezia, che è considerato uno dei più grandi coccodrilli mai esistiti. Il solo cranio misura un metro 60 di lunghezza circa. Per la sua vastità il giacimento fossilifero di Gadoufaoua, prima impresa scientifica del Centro studi Ligabue, potrebbe riservare nuove straordinarie scoperte.

Venezia, successo di pubblico per la mostra “Idoli. Il potere dell’immagine”. Per l’ultimo week end visite guidate con il presidente Inti Ligabue e conferenza del prof. De Martino

Il cosiddetto “Sfregiato” della Civiltà dell’Oxus da una collezione privata londinese (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019

“Merita di venire dall’altro capo del mondo per vederla” ha scritto senza giri di parole la giornalista del “Sole 24 Ore” sull’inserto culturale del Domenicale, ove si definisce “Idoli. Il potere dell’immagine” promossa dalla Fondazione Ligabue “una mostra da non perdere”. È ancora presto per un bilancio definitivo della mostra a Palazzo Loredan di Venezia, ma si può già parlare di straordinario successo: nei primi tre mesi sono stati 18mila i visitatori che hanno visto la mostra che raccoglie un centinaio di opere provenienti dai quattro angoli del globo, rappresentative delle prime esperienze di raffigurazione umana tridimensionale (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/08/15/a-venezia-la-mostra-idoli-il-potere-dellimmagine-terzo-grande-evento-della-fondazione-giancarlo-ligabue-una-finestra-sulla-rivoluzione-neolitica-e-la-ra/). La mostra chiude lunedì 20 gennaio 2019, e per l’ultimo week end la Fondazione Ligabue ha preparato un programma speciale: visite guidate con il presidente Inti Ligabue e una conferenza del prof. Stefano De Martino, sulle raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica in cui interverrà la curatrice della mostra Annie Caubet.

Inti Ligabue, presidente della fondazione Giancarlo Ligabue alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” (foto Graziano Tavan)

Una mostra, quella a Palazzo Loredan, caratterizzata dunque dal grande fascino esercitato dalle opere in esposizione – complice la cura posta nell’allestimento – in cui il percorso didattico diviene un vero e proprio viaggio attraverso la storia dell’arte figurativa, spunto ideale per rintracciare trame nascoste e scoprire le storie e i miti che hanno ispirato la loro creazione. Quindi un’occasione speciale le due visite guidate gratuite – il 19 e il 20 gennaio – con Inti Ligabue, presidente della Fondazione che ha ideato e concepito la mostra a partire dagli studi condotti da Giancarlo Ligabue sul tema e da alcuni straordinari reperti della stessa Collezione Ligabue: appuntamento sabato 19, alle 10 e domenica 20 alle 17, su prenotazione, con biglietto d’ingresso della mostra.

Il prof. Stefano De Martino alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” della Fondazione Ligabue (foto Graziano Tavan)

Sempre sabato 19 gennaio alle 11 invece, nel vicino Palazzo Franchetti, la Fondazione Giancarlo Ligabue ha promosso un’importante conferenza che terrà il professor Stefano De Martino su “Il Potere delle immagini: raffigurazioni di divinità nell’Anatolia antica”, alla quale interverrà – come si diceva – anche la stessa Annie Caubet. Professore ordinario di Anatolistica al Dipartimento di Studi Storici dell’università di Torino e autore di uno dei saggi in catalogo, il professor De Martino guiderà il pubblico alla scoperta degli Idoli provenienti da quella che Greci, Romani e Bizantini chiamavano Asia Minore, quell’estremità peninsulare della Turchia che fa da cerniera tra Occidente e Oriente. Il racconto spazierà dunque dalle cosiddette statuette Killia, caratterizzate da un corpo reso schematicamente, alle figure di donne spesso nude e dai tratti naturalistici, in argilla o metallo, riportate alla luce ad Alacahöyük in sepolture databili al Bronzo antico, sprigionanti una vitalità tanto peculiare da distinguerle nettamente da quelle egee e mesopotamiche, che, per quanto contemporanee, presentano caratteri di maggiore astrazione; ancora, dagli Idoli in alabastro rinvenuti a Kültepe – figure con corpo di forma circolare e dalla sessualità ambigua, idoli gravidi, androgini e itifallici al tempo stesso – alle statuette che presentano chiari segni di rottura intenzionale, forse legata all’esecuzione di rituali magici o riti di passaggio quali l’adolescenza o il matrimonio, a simboleggiare la rottura con la famiglia di origine e l’ingresso in una nuova fase della vita.

Venezia. Dalla Grande Madre steatopigica alle figurine schematizzate e astratte, alla bellezza idealizzata degli artisti mesopotamici: focus con la curatrice Caubet sulla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” promossa dalla Fondazione Ligabue

Inti Ligabue, presidente della fondazione Giancarlo Ligabue alla mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” (foto Graziano Tavan)

La locandina della mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” a Venezia dal 15 settembre 2018 al 20 gennaio 2019

La cosiddetta “Venere Ligabue”, star della mostra, in clorite, capolavoro della Civiltà dell’Oxus (2200-1800 a.C.), proveniente dall’Iran Orientale: fa parte della Collezione Ligabue

Inti Ligabue, sorridente, si mette in posa senza dover insistere. Alle sue spalle, nella vetrinetta, è esposta una statuetta battriana del III millennio a.C. Non è una statuetta qualsiasi, come sottolinea orgogliosamente il presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue: “È un’opera iconica alla quale è stato attribuito il nostro nome: Venere Ligabue. Gli studiosi la conoscono bene. Fu acquistata da mio padre agli inizi degli anni Settanta e diventata famosa anche grazie agli studi importantissimi da lui condotti in un’area del Turkestan afghano, che oggi identifichiamo appunto come Battriana: l’antico nome di un luogo e di una civiltà che egli, tra i primi, illustrò in un volume (“Battriana” – Erizzo 1988) che è tuttora una pietra miliare in questo campo”. Sabatino Moscati, uno dei più grandi archeologi italiani, non esitò a dire che le scoperte e gli studi di Giancarlo Ligabue sulla Battriana obbligavano “a riscrivere una parte della storia dell’archeologia del Vicino Oriente antico”. La Venere Ligabue è uno dei tanti manufatti affascinanti esposti nella mostra “Idoli. Il potere dell’immagine” aperta fino al 20 gennaio 2019 a Palazzo Loredan, a Venezia, curata da Annie Cubet (“Anch’ella grande archeologa e curatrice onoraria al Musée du Louvre”, riprende Inti, “che sono lusingato abbia accettato di sviluppare il progetto scientifico dell’esposizione”), oltre 100 opere tra Occidente e Oriente, dalla penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai remoti confini dell’Estremo Oriente, dal 4000 al 2000 a. C. L’alba della civiltà (vedi https://archeologiavocidalpassato.wordpress.com/2018/08/15/a-venezia-la-mostra-idoli-il-potere-dellimmagine-terzo-grande-evento-della-fondazione-giancarlo-ligabue-una-finestra-sulla-rivoluzione-neolitica-e-la-ra/).

Statuette cicladiche dalla sessualità ibrida nella mostra “Idoli” a Venezia (foto Graziano Tavan)

Tutte le statuette in mostra, che riportano talvolta i segni delle ripetute manipolazioni o di riparazioni coeve – a dimostrazione di un loro utilizzo costante e di un ruolo chiave negli eventi sociali e religiosi ricorrenti – sono custodi di storie e miti di straordinaria suggestione; testimoni di usi e di bisogni simili e, in seguito, di quel “grande arazzo di culture interconnesse” che si venne a creare tra la fine del IV e per tutto il III millennio a.C. “Non possiamo non farci affascinare dalle figure steatopigie dell’Arabia”, fanno notare gli archeologi, “o dalle statuette cicladiche dalla sessualità ibrida o ancora dalle più enigmatiche sculture della preistoria cipriota, quelle statuine stanti del tipo plankshaped (con i tratti del volto resi da una molteplicità di segni geometrici incisi, l’abbigliamento elaborato e spesso del tipo “a due teste”), di cui sono in mostra importanti esemplari del museo Archeologico di Nicosia; o ancora dalla visione naturalistica ma idealizzata che si sviluppa in Mesopotamia nell’Età del Bronzo. I geni raffigurati in questo periodo dagli artisti della Civiltà dell’Oxus, sviluppata in Asia centrale (complesso Battriano-Margiano), narrano di battaglie cosmiche, di esseri dalla doppia identità animale e umana, ricompongono i fili del racconto mitologico ove il “Drago dell’Oxus” – detto anche “Lo Sfregiato” per il profondo squarcio che gli deturpa il volto – con il corpo coperto di squame di serpente, era la controparte selvaggia della “Dama dell’Oxus”: forse spirito astrale, forse principessa Battriana. Non possiamo non farci sedurre dai miti di queste prime civiltà e dal potere dell’immagine”.

Figura steatopigia in basalto del IV millennio a.C. proveniente dall’Arabia Saudita e conservata in una collezione privata di Londra

“Il tipo più antico esposto in mostra”, scrive la curatrice Annie Caubet, “è l’onnipresente figura steatopigia, la cosiddetta “Grande Madre”, ereditata da una lunga tradizione neolitica. Nuda e sontuosamente voluttuosa, occupò da sola lo scenario iconografico di gran parte del mondo antico fino all’arrivo di nuove immagini alla fine del IV millennio a.C. In mostra sono presenti esemplari provenienti da regioni distanti tra loro come la Sardegna, le Cicladi, Cipro e l’Arabia. I volumi delle diverse parti del corpo, taluni accentuati, altri ridotti, ma sempre attentamente equilibrati, danno vita a un insieme dinamico e potente. Quando, tra il 3300 e il 3000 a.C., gran parte del mondo antico fu teatro della rivoluzione urbana che portò alla nascita delle prime città, la profonda trasformazione sociale ed economica si tradusse in cambiamenti radicali nel campo delle rappresentazioni visive. I concetti metafisici continuarono a essere incarnati in immagini tridimensionali, ma l’ideale steatopigio fu abbandonato a favore di visioni del tutto nuove. Il contrasto tra le due fasi può essere osservato con particolare chiarezza negli esemplari realizzati in periodi successivi nella stessa area, come la Sardegna o le Cicladi. Si affermarono due tendenze opposte e complementari: una portata all’astrazione e alla schematizzazione estrema; l’altra realistica, ma stemperata da una tendenza all’idealizzazione. Entrambe erano spesso adottate contemporaneamente”.

Figura femminile fallica del Tardo Neolitico da Cipro (museo di Nicosia)

Ma attenzione, fa presente Caubet: “Composte con volumi netti e geometrici, le immagini astratte non sono tali nel senso dell’estetica del Novecento. Piuttosto, sono visioni schematiche del corpo, in cui alcune parti sono assenti e altre accentuate, soprattutto gli occhi e il triangolo pubico, secondo una sorta di sineddoche (pars pro toto) visiva. Gli occhi, la sede della vita e dell’identità, erano – anche in contesti diversi – l’elemento principale delle statuette modellate nella penisola iberica, in Egitto, a Cipro, in Anatolia, in Siria e in Mesopotamia. Talvolta il triangolo pubico compare in modo discreto sul bordo di un disco completamente astratto, come negli idoli circolari di Kültepe o in quelli cicladici a forma di violino. In altri casi finisce con il rappresentare il corpo intero, come negli idoli di terracotta dell’Asia centrale composti da un triangolo dotato di occhi e seni. Solitamente, queste immagini astratte sono di genere femminile, anche se talvolta contengono un’altra sineddoche visiva: nelle immagini femminili falliche, tutto il corpo o solo alcune parti, la testa e le braccia, assumono la forma di un pene eretto. Cipro e l’Anatolia crearono capolavori raffiguranti questo ideale androgino: si voleva riprodurre una natura irrealisticamente completa? – si chiede Caubet -. In contrasto con quest’estetica astratta, all’incirca nello stesso periodo, alla fine del IV millennio a.C., si venne affermando una visione naturalistica ma idealizzata del corpo umano. Uno dei centri principali di questa tendenza si trovava nella Mesopotamia meridionale. La cultura di Uruk, così chiamata dal nome della città di Gilgamesh dove fu inventata la scrittura, estese il proprio dominio su gran parte dell’Asia occidentale e segnò in modo significativo lo sviluppo dell’Egitto e la nascita della civiltà faraonica”.

Figura incinta distesa in marmo tipo “spedos” dalle Cicladi, oggi in collezione privata inglese

“Gli artisti della Mesopotamia – ricorda ancora la curatrice – crearono capolavori di bellezza idealizzata come la cosiddetta “Dama di Warka” (Baghdad). Una tipologia di statuette femminili nude idealizzate, create intorno alla metà del III millennio a.C., si diffuse nel Levante e in Egitto e rimase estremamente popolare fino alla fine dell’antichità. Depositate nelle tombe e collocate nei templi, queste statuine probabilmente facevano parte anche del culto domestico. La maggior parte era in argilla cotta, con alcune eccezioni in avorio o pietra. Il confronto tra l’estetica idealizzata della Mesopotamia e quella delle isole Cicladi, nell’Egeo, non è stato tentato spesso, ma apre nuove prospettive sull’arte dell’Età del Bronzo del III millennio a.C. Gli artisti delle Cicladi sfruttarono al meglio la qualità del marmo locale, così come avrebbero fatto i loro successori del periodo classico greco. I tipi iconografici creati intorno al 2800 a.C. resistettero e si evolvettero per diversi secoli: un corpo nudo, le braccia incrociate sulla vita a proteggere la pancia, spesso mostrata in stato di gravidanza. Benché nei musei siano spesso esposte in verticale, queste statuette erano in realtà concepite per essere collocate in posizione supina, con le gambe leggermente piegate, i piedi puntati verso il basso e la testa reclinata all’indietro come a guardare il cielo. Pur rimanendo nei limiti della tipologia, singoli scultori come il prolifico “maestro di Goulandris” o il “maestro di Sutton Place” introdussero innumerevoli variazioni di stile e proporzioni. Le statuette cicladiche venivano depositate nelle tombe probabilmente dopo essere state utilizzate nei luoghi di culto pubblici in occasione di rituali ricorrenti; le ripetute manipolazioni lasciavano tracce di usura e segni di rottura sui pezzi, che spesso venivano riparati con cura. Le statuette cicladiche erano importate e imitate a Creta e in Anatolia”.